Un uomo e un bambino, padre e figlio, senza nome. Spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c’è storia e non c’è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio. Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all’olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d’infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola. Quando incrociano una carovana di predoni l’uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma è ormai una distesa d’acqua grigia, senza neppure l’odore salmastro, e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile…
Due protagonisti, padre e figlio, cercano di sopravvivere in un mondo post-apocalittico. Del mondo è rimasto quasi nulla e i pochi sopravvissuti sono divisi in due gruppi: i cattivi e i buoni. I cattivi si muovono in gruppo in cerca di vittime da saccheggiare e mangiare, i buoni cercano di sopravvivere spostandosi da un posto all’altro evitando di farsi scoprire.
Non si sa nulla di cosa sia successo, né quando, come non si sa nulla dei nostri protagonisti; non hanno un nome, un età, non c’è un luogo; soltanto una lunga strada da percorrere.
Lo stile è molto particolare e a tratti lento, i dialoghi scarni, le azioni sempre le stesse: camminare, cercare cibo, soffrire la fame, nascondersi. Ammetto di aver fatto fatica nelle prime pagine, ma andando avanti si riesce a trovare la chiave di lettura, diventa subito tutto più chiaro, e ci si rende conto della ricchezza di questo libro.
McCarthy racconta uno scenario post-apocalittico, dove c’è ben poco da fare, a parte sopravvivere. E quello che vuole evidenziare non sono tanto le caratteristiche dei personaggi ma quello che provano, ed è ciò che rende il romanzo tanto speciale. Riusciamo a percepire dalla prima all’ultima tutte le intense sensazioni dell’uomo e del bambino, l’ansia, la paura, l’angoscia, i loro ricordi e l’intenso amore l’uno per l’altro.
Quello che accompagna questa lettura è un profondo stato di ansia ma anche, nelle ultime pagine, di speranza in un nuovo inizio.
Cercò di pensare a qualcosa da dire ma non gli venne in mente nulla. Aveva già provato quella sensazione, qualcosa che andava oltre l’intorpidimento e la disperazione sorda. Il mondo che si riduceva a un nocciolo nudo di entità analizzabili. I nomi delle cose che seguivano lentamente le cose stesse nell’oblio. I colori. I nomi degli uccelli. Le cose da mangiare. E infine i nomi di ciò in cui uno credeva. Più fragili di quanto avesse mai pensato. Quanto di tutto questo era già scomparso?

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